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Il danno da perdita di chance di sopravvivenza spetta anche al malato terminale

Il danno da perdita di chance di sopravvivenza spetta anche al malato terminale

Un parere sulla Sentenza della Cassazione n° 7195 del 27.03.2014

La terza sezione della Cassazione con la sentenza 27.03.2014 n° 7195 chiarisce che, in tema di danno alla persona conseguente a responsabilità medica, integra l’esistenza di un danno non patrimoniale risarcibile l’omissione della diagnosi di un processo morboso terminale, allorché determini la tardiva esecuzione di un intervento chirurgico ed allorché, per effetto del ritardo, faccia perdere al paziente la chance di conservare, durante quel decorso, una migliore qualità della vita, nonché la possibilità di vivere più a lungo di quanto, poi, effettivamente vissuto

Il fatto: Una donna di 50 anni muore per cancro dell’ovaio, un tumore maligno dell’apparato genitale femminile che sfugge alla prevenzione ed è caratterizzato da elevata mortalità. Il marito denuncia i medici dell’ospedale perché, per fatto e colpa dell’équipe sanitaria, la moglie era stata vittima di un erroneo trattamento terapeutico. Nello specifico i chirurghi, riscontrato il tumore ovarico al III stadio, si erano limitati ad asportare solo l’ovaio colpito dalla neoplasia senza asportare anche l’altro ovaio e l’utero. Questa decisione terapeutica, a detta della difesa attrice, aveva comportato la perdita di chance di sopravvivenza e/o l’accelerazione del decesso della signora, avvenuto dopo lunga e straziante agonia.

Nei primi due gradi di giudizio, tuttavia, le istanze del marito non erano state accolte, escludendo che la condotta dei sanitari potesse essere stata un elemento concausale della morte della donna. Pertanto non era stata accolta nemmeno la domanda di risarcimento del danno da perdita di chance. Gli eredi della donna decidono di ricorrere all’ulteriore grado di giudizio per chiedere, tra l’altro, la cassazione del capo di sentenza che aveva rigettato la domanda di risarcimento di tale voce di danno.

La decisione

Nel caso della responsabilità medica, in particolare per intervento terapeutico o chirurgico errato, occorre verificare se questo abbia comportato la perdita della possibilità di vivere più a lungo, anche soltanto per poco tempo.

La Suprema Corte, accertato il nesso causale tra l’errore medico e il mancato rallentamento della progressione della malattia e comunque tra l’errore medico e l’accorciamento della possibile durata della vita, ha accolto il ricorso, cassando la sentenza impugnata e rinviando alla Corte Territoriale per la risarcibilità della perdita delle chances di sopravvivenza della signora.

In particolare, la Terza Sezione ha aderito all’impostazione difensiva in virtù della quale riconoscere il diritto del malato a mantenere integre le proprie chances di sopravvivenza equivale a presupporre il riconoscimento della tutela ad un “bene intermedio” diverso da quello della vita e da quello della salute. Pertanto la Corte di Cassazione ha affermato che, in tema di responsabilità medica, dà luogo a danno risarcibile l’errata esecuzione di un intervento chirurgico praticabile per rallentare l’esito certamente infausto di una malattia, che abbia comportato la perdita per il paziente della chance di vivere per un periodo di tempo più lungo rispetto a quello poi effettivamente vissuto.

Commenti dal mondo medico

La sentenza, nei suoi punti salienti, è apparsa il 14.04.2014 su DottNet Panorama Medico, una newsletter quotidiana di aggiornamento medico.

Di seguito, alcuni commenti pubblicati sulla rete da colleghi medici:

“[…] forse l’unico specialista che può forse stare tranquillo è il collega anatomopatologo. I giudici sono degli ignoranti che si affidano a consulenti specialisti. Il problema sono i loro consulenti chiamati per amicizia o buona introduzione nell’ambiente. E spesso sono proprio quelli che non operano che fanno i consulenti (i buoni consigli li dà chi non può più dare il cattivo esempio). Chi ha da lavorare non ha tempo per le consulenze legali. Un intervento più radicale e demolitivo poteva anche peggiorare e ridurre la qualità e la lunghezza della vita; credo che ogni medico quando prende una decisione cerchi il miglior risultato possibile in quel momento e, ribadisco, in quel momento. Se le persone vogliono curarsi con internet facciano a meno di coinvolgerci, oppure cerchiamo di collaborare e di fidarsi per ottenere il miglior risultato possibile.”

“[…] Siamo arrivati alla fantascienza medico legale. Neanche Asimov… Quando verrà legalmente istituito un tribunale per i diritti del medico? Gli avvocati avvoltoi aumenteranno a dismisura. E che non si blateri a vanvera “per tutelare i diritti dei pazienti”. I medici sono un ottimo mezzo per fare business. Di questo passo prenderà sempre più piede la medicina difensiva con tutte le sue conseguenze.”

“Non ci sono parole per commentare questa sentenza. Ormai manca solo il processo alle intenzioni. Lo scarto temporale tra la durata della sopravvivenza effettiva e quella della sopravvivenza possibile è una trovata davvero diabolica. Chi lo calcolerà? Una cartomante? In questa società del diritto e dei diritti a tutti i costi, tra poco si giungerà a sentenziare direttamente “Il diritto per tutti a non morire in ogni caso”. E, allora, guai al medico che dovesse semplicemente trovarsi nel campo visivo di un moribondo e dei suoi parenti. Tanto, un medico su cui gettare la croce addosso si trova sempre: se era lì, perché non ha fatto qualcosa? E, se l’ha fatta, perché l’ha fatta? Non se ne esce, signori, perché dietro a tutti questi diritti circolano tanti soldi e i medici clinici sono diventati le slot machine di avvocati e medici legali! Vorrei che i giudici che hanno così sentenziato potessero vivere, come terminali, con derivanti sofferenze, per almeno 20 anni. Siamo in balia dei giudici, non sapremo più come comportarci anche di fronte ai malati terminali. E poi si blatera contro la medicina difensiva. Verrebbe voglia di starsene a casa e non lavorare più!”

Il parere della scrivente

Non corre buon sangue tra Giudici, Avvocati e Medici. Noi Medici dedichiamo la nostra vita al miglioramento della salute altrui. Siamo esseri umani e come tali possiamo sbagliare, ma i nostri errori in alcuni casi sono irreparabili perché sul piatto della bilancia c’è la vita e la morte. Oggi poi, i contenziosi medico-legali sono aumentati a dismisura sicuramente a causa di certa malpractice medica ma anche, e soprattutto, perché nessuno di noi accetta più l’ineluttabilità del fato. A questo si aggiunge anche un certo malcostume legale che, di fronte ad un potenziale cliente che chiede un risarcimento per presunta colpa medica, tende a consigliare di procedere anche quando non ve ne siano gli estremi. Mi permetto di fare questa osservazione in quanto faccio spesso perizie di parte su incarico di Studi Legali e, nei casi in cui mi capita di verificare la non conguenza a procedere, devo ampiamente discutere sia con i pazienti o parenti, che non accettano di essere stati vittime del fato e non del medico, sia con gli Avvocati che non accettano la perdita del cliente e il relativo mancato guadagno.

Per quanto riguarda l’oggetto della Sentenza in questione va ricordato che la figura del danno da perdita di chances è stata per la prima volta affermata dalla Cassazione 4400/2004, la quale ha definito la chance come la concreta ed effettiva occasione favorevole di conseguire un determinato bene o risultato, intesa con entità patrimoniale a sé stante, giuridicamente ed economicamente suscettibile di autonoma valutazione, per cui la sua perdita configura un danno concreto e attuale. In tal senso si configura una perdita di chance ogni qual volta il comportamento negligente, imprudente o imperito del medico, riverberatesi in un aggravamento o in una mancata guarigione del paziente, abbia comportato il rallentamento del processo di guarigione.

Nel caso specifico, la perdita di chances occorsa alla sfortunata signora affetta da tumore ovarico al III stadio (malattia con bassa sopravvivenza a 5 anni dalla diagnosi) è stata conseguente a una errata valutazione chirurgica e quindi all’esecuzione di un intervento chirurgico non adeguato allo stadio della malattia.

È vero che la scelta di un intervento più radicale e demolitivo poteva anche peggiorare e ridurre la qualità e la lunghezza della vita – come afferma un commento medico sopra citato – ma è pur vero che questo intervento non è stato fatto in “urgenza” per pericolo di vita immediato. Nella fattispecie, gli interventi di chirurgia oncologica per cancro ovarico si programmano e vanno valutati in base alla stadiazione della malattia, il tipo istologico, l’età della paziente e il suo desiderio di fertilità. La signora era relativamente giovane con i suoi 50 anni anagrafici ma anche volendo non sarebbe più potuta rimanere gravida. Lo stadio III presuppone che il tumore, oltre ad interessare una o entrambe le ovaie, ha impianti sul peritoneo e/o metastasi ai linfonodi regionali. L’obiettivo principale in questa fase è eliminare i depositi di cellule tumorali presenti sul peritoneo e sugli organi confinanti, asportare utero, ovaie e linfonodi. In alcuni casi è utile far precedere l’intervento chirurgico da alcuni cicli di chemioterapia. Pertanto, un intervento conservativo di asportazione del solo ovaio affetto da neoplasia al III stadio non è la scelta chirurgica più appropriata perché equivale, in termini di progressione della malattia, al non fare alcun intervento.

La povera signora aveva i giorni contati comunque ma certamente, nel momento in cui è stata effettuata la scelta chirurgica sbagliata, le sue chances di vivere di più e vivere meglio si sono ridotte al lumicino.

In base a questa considerazione mi sento di dissentire dai commenti dei colleghi sopracitati perché la Suprema Corte non ha fatto un processo alle intenzioni e non ha sancito il diritto per tutti a non morire in ogni caso. Non si tratta di fantascienza medico legale ma di responsabilità del/dei sanitari dovuta ad errato intervento chirurgico dove ovviamente in presenza di un errore le perdite di chances sono conseguenze inevitabili.

I colleghi, con tutta probabilità, devono aver letto solo le conclusioni della sentenza completa.

Questa sentenza ha ricordato che pur essendo il malato terminale un condannato a morte certa non può essere buttato giù dalle rupe tarpea e che la speranza di guarire deve essere l’ultima a morire.

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Dott.ssa Fiammetta Trallo, Specialista in Ginecologia e Ostetricia

 

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