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Ginecologo obiettore condannato perché nasconde la malformazione del feto per evitare l’Interruzione Volontaria di Gravidanza

Ginecologo obiettore condannato perché nasconde la malformazione del feto per evitare l’Interruzione Volontaria di Gravidanza

La sentenza, i commenti del mondo medico e cattolico, una panoramica sulla legge 194.

La Corte di Cassazione Civile, Sezione III, con la Sentenza 11364/2014 pronunciata il 22 maggio u.s. condanna un ginecologo obiettore a pagare il danno patrimoniale anche futuro ed esistenziale per la nascita di una bambina malformata affetta da Sindrome di Down perché la madre non è stata avvertita del rischio.

La Suprema Corte afferma l’esclusiva responsabilità del medico nel determinare l’evento lesivo escludendo la condanna sia della clinica sia dell’assicurazione. A differenza della colpa, il dolo preclude la possibilità di avvalersi della garanzia assicurativa.

La novità della sentenza è che, a differenza del passato oltre ai genitori e ai fratelli, è stato dichiarato soggetto risarcibile anche la stessa bambina affetta da Sindrome di Down.

Il fatto: Due genitori hanno citato in Tribunale un ginecologo e la clinica in cui esso operava chiedendo il risarcimento di tutti i danni patrimoniali e non, conseguenti alla nascita di una figlia gravemente malformata e portatrice della Sindrome di Down o trisomia 21. Il ginecologo che ha seguito la gravidanza non aveva, volutamente, informato la gestante delle condizioni del feto in quanto Medico Obiettore contrario, quindi, anche all’aborto terapeutico, per evitare che la donna decidesse di non proseguire la gravidanza. Il medico aveva prescritto solo esami di accertamento che, nonostante avessero evidenziato alcune malformazioni, non avevano indotto l’uomo a consigliare come approfondimento l’esecuzione dell’amniocentesi, esame più invasivo con rischio di aborto (talvolta anche di feti sani e normali) potenzialmente pericoloso ma diagnostico al cento per cento delle trisomie e quindi anche della Sindrome di Down. In effetti, se la malformazione fosse stata diagnosticata, la mamma avrebbe forse abortito.

Ginecologo e clinica si sono costituiti in giudizio e, pur contestando ogni addebito, hanno a loro volta denunciato il sinistro alle rispettive compagnie di assicurazione per essere garantiti in caso di condanna. Il Tribunale, accertata la responsabilità del medico, ha condannato il ginecologo insieme alla propria società assicuratrice al risarcimento, rigettando invece le domande nei confronti della clinica. La compagnia di assicurazioni, a sua volta, si è appellata alla decisione in quanto il ginecologo aveva agito con dolo e non per colpa. I coniugi a loro volta, con appello incidentale, chiedevano il riconoscimento del danno esistenziale e del danno patrimoniale futuro, non riconosciuto dal Tribunale. L’appello si è concluso con la sola condanna del medico al risarcimento dell’importo già quantificato dal Tribunale più l’importo di euro 50 mila ma negava il riconoscimento del danno patrimoniale futuro chiesto dai genitori, che hanno pertanto deciso di ricorrere alla Cassazione.

I giudici della Corte d’Appello, pur di fronte all’invalidità quasi totale del bambino alla nascita, avevano negato il danno futuro, circoscrivendo il risarcimento al periodo che andava dalla nascita alla data della sentenza. I giudici di merito avevano accordato alla madre un contributo di 5 mila euro l’anno, per l’assistenza prestata e la presumibile limitazione dell’attività lavorativa, e nulla al marito, anche se convivente e partecipe.

I giudici di Cassazione non hanno invece ragionato allo stesso modo, affermando che: “l’errore giuridico compiuto dalla Corte d’Appello attiene all’iniquità dei criteri liquidatori di un danno patrimoniale certo e permanente, posto che la solidarietà familiare come è proseguita fino al tempo del decidere, proseguirà sino a quando i genitori saranno in vita”. Per la Cassazione non può considerarsi giuridicamente corretta la somma riduttiva liquidata come retribuzione di un danno patrimoniale emergente, in una condizione “dove l’assistenza al menomato non può che essere continua con sacrifici economici rilevanti, che fanno carico non solo alla madre ma anche al padre convivente e presente”.

Nel caso specifico i giudici, sia d’Appello che di Cassazione, hanno invece ravvisato il dolo, all’interno della colpa civilmente rilevante, riscontrabile nella coscienza e nella volontà di determinare la nascita di un bimbo con gravi handicap costretto a una sopravvivenza incerta, ma certamente “lesiva in misura gravissima della salute e della stessa dignità della persona e con conseguenze patrimoniali disastrose per sé e per gli sventurati genitori”.

La Cassazione precisa che per l’affermazione del dolo è irrilevante la giustificazione della riserva mentale dell’obiezione di coscienza, tra l’altro esternata solo nel corso della causa e non rivelata ai futuri genitori.

La Corte d’Appello e quella di Cassazione sono state concordi, inoltre, nell’escludere la responsabilità dell’assicurazione, in base alla clausola inserita nella polizza che copriva il medico solo per i fatti colposi e non per le azioni dolose. La Suprema Corte aggiunge, poi, che “la consapevolezza di aver taciuto la sussistenza del rischio preclude la possibilità di far ricorso alla garanzia assicurativa che copre il rischio di errore nell’esercizio della professione medica”.

La pronuncia fornisce lo spunto per esaminare i casi in cui il rischio di errore è coperto dal contratto assicurativo stipulato per la responsabilità professionale medica.

La polizza assicurativa professionale copre solo i fatti colposi dell’assicurato medico. Sono esclusi i danni derivanti da fatti dolosi. Il presupposto è che il contratto assicurativo è fondato sul concetto di rischio, ovvero su circostanze che nulla hanno a che vedere con la volontà dell’assicurato. Diversamente non si potrebbe parlare di “assicurazione del rischio” ma di “assicurazione di un evento certo” poiché dipendente dal fatto stesso di chi stipula il contratto assicurativo. Il dolo dell’assicurato e tutti quegli eventi che dipendono o possono dipendere dalla sua volontà non sono, quindi, mai ricompresi nelle garanzie contenute nel contratto assicurativo poiché ciò contrasta con l’essenza dell’assicurazione. L’assicurazione risponde, dunque, solo per i fatti colposi del medico assicurato e per tutti quegli errori involontari o complicazioni che non possono essere previsti né prevenuti secondo lo stato dell’arte medica e i mezzi a disposizione (Cassazione civile, Sezione III, Sentenza del 22 maggio 2014, n. 11364).

A nulla vale il richiamo alla colpa cosciente e all’interpretazione estensiva della garanzia. Nel caso specifico i coniugi nel loro ricorso in cassazione, per coinvolgere l’assicurazione del ginecologo, avevano invocato la sussistenza della colpa cosciente del medico sulla base della quale la compagnia avrebbe dovuto rispondere insieme all’assicurato per la responsabilità di quest’ultimo, non essendosi verificato il caso di esclusione, vale a dire il dolo. I ricorrenti ritenevano, infatti, che il medico non avesse rappresentato il verificarsi dell’evento dannoso con assoluta certezza (dolo) ma che detto evento fosse stato valutato solo come ipotesi astratta non concretamente realizzabile (colpa cosciente) e, pertanto, sostenevano che per tale ragione la garanzia assicurativa dovesse essere ritenuta operante. I giudici della Suprema Corte evidenziano che il tentativo operato con abili illazioni dai ricorrenti di interpretare in modo estensivo il contratto assicurativo, nella parte in cui si fa riferimento all’espressione “per fatto proprio”, non può essere accolto e nemmeno il concetto della colpa cosciente.

Il giudizio sul dolo è stato corretto e i giudici della Cassazione hanno affermato la correttezza della decisione dei colleghi della Corte d’Appello precisando che il dolo del professionista, nel caso in esame, sussiste “come coscienza e volontà di porre in essere una situazione certa di parto di un feto malformato, costretto a una sopravvivenza incerta, ma certamente lesiva in misura gravissima della salute e della stessa dignità di persona e con conseguenze patrimoniali disastrose, per sé e per gli sventurati genitori”. Secondo gli Ermellini la decisione, quanto meno su tale punto, è corretta e insindacabile e il medico dovrà corrispondere in modo esclusivo il risarcimento dei danni, così come già quantificati, più il danno patrimoniale futuro che non può essere liquidato in “un modesto obolo temporaneo” ma che dovrà tenere conto del “rilevante impegno economico sostenuto dai genitori, considerando e la gravità dell’invalidità e l’impegno continuo di assistenza e i sacrifici e le perdite economiche, secondo ragionevoli presunzioni” (Cassazione civile, Sezione III, Sentenza del 22 maggio 2014, n. 11364; ma anche Cassazione civile, Sezione III, Sentenza del 9 maggio 2011, n. 10108).

In un articolo apparso su Famiglia Cristiana l’11.10.2012, il giornalista titolava e commentava così analoga sentenza: “Nasce down. Condannato il medico. Il sanitario non aveva prescritto tutti gli esami e la Cassazione lo condanna al risarcimento. Una sentenza che forza il senso della legge 194”.

“Riconoscimento, dunque, della soggettività giuridica del feto? Nient’affatto, la sentenza della Corte (sentenza 16754/2012) afferma: «Il diritto alla procreazione cosciente e responsabile è attribuito alla sola madre per espressa volontà legislativa, sì che risulta legittimo discorrere, in caso di sua ingiusta lesione, non di un diritto esteso anche al nascituro in nome di una sua declamata soggettività giuridica, bensì di propagazione intersoggettiva degli effetti diacronici dell’illecito, con l’indispensabile approfondimento sul tema della causalità in relazione all’evento di danno in concreto lamentato dal minore nato malformato». In sostanza il disabile è risarcibile in conseguenza della sua nascita. Meglio, in parole povere, se non fosse mai nato. «È come se si dicesse: ti paghiamo perché sei nato, era meglio se non nascevi», conferma Marina Casini, giurista e ricercatrice di bioetica presso la Facoltà di Medicina e Chirurgia dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Roma. «Un conto è il risarcimento del danno per mancata informazione dovuta a negligenza, un conto è chiedere il risarcimento perché avrei voluto abortire e mi è stato impedito. Qui si parla esplicitamente di diritto di autodeterminazione della madre alla morte del proprio figlio, leggendo la legge 194 come un vero e proprio diritto all’aborto. Si tratta di un’interpretazione molto spinta, lontana da quello che nel 1975 disse la Corte Costituzionale che impostò l’aborto non sul diritto della madre ad abortire ma sullo stato di necessità: era un conflitto tra due soggetti, dando prevalenza alla donna ma non negando l’umanità del figlio», chiarisce. «Questa sentenza ha cancellato questo principio e ha esteso al massimo il diritto della donna negando la soggettività dell’embrione, cosa che invece ormai molti documenti anche europei riconoscono». Insomma, «un gravissimo passo indietro, una sentenza che va a indebolire la percezione della persona umana»”.

Facciamo allora chiarezza.

L’Interruzione Volontaria della Gravidanza

L’ammissibilità morale dell’Interruzione Volontaria di Gravidanza (IVG) è fortemente soggetta a convinzioni etico- religiose o più in generale al modo in cui una cultura si pone di fronte a concetti come l’anima o la vita. Negli ultimi decenni l’IVG è una pratica legale in buona parte del mondo, soprattutto occidentale, con varie motivazioni (casi di salute della madre, gravi malformazioni del feto, violenza carnale subita) ammesse anche nei paesi a dominanza maschile e di stampo conservatore. In diversi paesi, tra cui l’Italia, l’IVG è garantita anche alle minori alle quali, in assenza dei genitori, viene affiancato un Giudice Tutelare. In altre nazioni l’IVG è imposta alla donna o fortemente raccomandata quando il nascituro non abbia le caratteristiche volute dalla famiglia, prima fra tutte il sesso. In ampie zone dell’India e della Cina il numero degli uomini ha superato quello delle donne per oltre 40 milioni di individui proprio per questo motivo. Negli stati in cui la IVG è legale, può essere richiesta su solo giudizio della donna entro un dato periodo di tempo. In Italia, come in molti altri Paesi, il termine è la 12ª settimana di gestazione, in Inghilterra la 24ª.

La legge 194

In Italia l’IVG è regolamentata dalla Legge 22 maggio 1978, n.194 con la quale sono venuti a cadere i reati previsti dal titolo X del libro II del codice penale con l’abrogazione degli articoli dal 545 al 555, oltre alle norme di cui alle lettere b) ed f) dell’articolo 103 del T.U. delle leggi sanitarie.

La legge 194 è stata confermata dagli elettori con una consultazione referendaria il 17 maggio 1981.

La 194 consente alla donna, nei casi previsti, di poter ricorrere alla IVG in una struttura pubblica, ospedale o struttura convenzionata con la Regione di appartenenza, entro i primi 90 giorni di amenorrea, calcolati dalla data dell’ultima mestruazione. Dal 91° al 180° giorno è possibile ricorrere alla IVG solo per motivi di natura terapeutica (art. 6):

  • quando la gravidanza o il parto comportino un grave pericolo per la vita della donna;
  • quando siano accertati processi patologici, tra cui quelli relativi a rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro, che determinino un grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna.

Il legislatore, quindi, non ha affermato che il feto portatore di rilevanti anomalie o malformazioni non abbia il diritto di nascere. Il legislatore ha concesso alla mamma il diritto di scegliere di interrompere la gravidanza nel caso in cui gli esami diagnostici hanno evidenziato anomalie tali del feto che possano determinare un grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna.

Ed è questo diritto che è stato negato alla donna della sentenza in esame.

Il commento della scrivente, nonché Medico Ginecologa: Mi auguro vivamente che la sentenza faccia scuola. Rispetto gli obiettori di coscienza per le loro scelte, ma solo se il comportamento è coerente con il dovere di informazione. Di fronte alla donna che intende esercitare il suo diritto ad abortire nel caso di malformazioni rilevanti del nascituro, le informazioni devono essere scientifiche, corrette e complete, a costo che la donna decida di rivolgersi ad altro ginecologo. Spesso è proprio questo timore che porta a comportamenti deontologici scorretti. Nella mia trentennale carriera di Ginecologa ne ho viste e sentite di ogni sull’argomento. Molti dei ginecologi scelgono l’obiezione ma non vogliono rinunciare all’indotto economico di quella fetta di pazienti che, sapendolo anzitempo, opterebbe per altro ginecologo non obiettore anche solo per la prescrizione della pillola anticoncezionale. A tal proposito, molti obiettori, ne sconsigliano categoricamente l’uso (ma inseriscono la spirale al rame, dispositivo notoriamente abortigeno, perché la prestazione è meglio remunerata) per gli eventuali effetti collaterali, senza peraltro fare valutazioni oggettive tramite i controlli ematici di screening, come da linee guida. Le argomentazioni contro il contraccettivo più raccomandato dalla scienza per arginare l’interruzione volontaria di gravidanza (IVG) sono che fa venire l’ictus ed il cancro al seno. Apriti cielo se poi una donna ha avuto anche solo una trisavola che ha avuto questo tumore. Il terrore corre sul filo. I tumori genetici mammari sono meno del 10% di tutti i tumori del seno diagnosticati e comunque sono prevedibili attraverso il Breast Cancer 1/2, il test genetico divenuto celebre perché eseguito dall’attrice Angelina Jolie prima della sua coraggiosa decisione, da me personalmente condivisa al cento per cento.

È di questi ultimi giorni, infine, il decreto emanato dalla Regione Lazio e firmato dal presidente Nicola Zingaretti che stabilisce che tutti i medici dei consultori, anche se obiettori, devono rilasciare la certificazione necessaria per richiedere l’IVG presso le strutture autorizzate, come previsto dalla Legge 194. E la prescrizione di contraccettivi è obbligatoria, anche per quelli d’emergenza.

Il documento sancisce che “l’obiezione di coscienza riguarda solo l’attività degli operatori impegnati nell’esecuzione dell’IVG. Il personale operante nel consultorio familiare non è direttamente coinvolto nell’effettuazione di tale pratica, bensì solo in attività di attestazione dello stato di gravidanza e certificazione attestante la richiesta inoltrata dalla donna di effettuare IVG”.

Di sicuro, un argomento delicato del quale sentiremo ancora discutere parecchio.

Dott.ssa Fiammetta Trallo, Specialista in Ginecologia ed Ostetricia

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